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Qui i giocatori di The Miracle lasciano imprese, poesie, narrare eventi e grandi avventure avvenute e in svolgimento su Ardania. Linguaggio strettamente ruolistico.

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By Victoria
#14011
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Lo scudo araldico, il più vecchio tra quelli esposti nella sede Templare, riusciva a rilucere anche nella strana penombra del mattino, come se da solo catturasse i raggi di un astro nascente che ancora non si faceva scorgere. Victoria, una ragazza alta e dalle ampie spalle, che di quei simboli era cresciuta e che a quello scudo si era così tante volte inchinata, era lì, immobile da oramai da diverso tempo, eretta con la mascella serrata, gli occhi vitrei come spenti, lontani chissà dove, come un mare ghiacciato del nord.
Il silenzio di quel luogo sacro, colmo di storia, si stava pian piano sciogliendo, i primi Templari si riunivano in preghiera, altri chiamavano l’addestramento alle armi, i Custodi anziani in fine ascoltavano le disposizioni in perfetto rigore. Come sempre. Rassicurando.

Una figura longilinea, dai corti capelli chiari, di onde argentee e lontani ricordi di giovanili ciocche dorate, camminava lento lasciando dietro di sé solo il fruscio del manto Cremisi amoniano, salutava con pacata risolutezza ed infine, giunto davanti la statua del Pater Crom, si inchinò, ginocchio a terra, mano al cuore, capo chino. Era un Templare, il suo incedere e poi inchinarsi era perfetto, maestoso nella sue semplicità, ricordava l’obbedienza ma non quella cieca, era l’obbedienza scelta, ragionata, dritta come una perfetta lama, protettiva come uno scudo possente. Poi rialzandosi si avvicinò alla ragazza, pose la mano sulla spalla di Victoria e le parlò.

Per molto tempo i due rimasero a discutere, davanti al Simbolo dei Templari, così tante volte oscurato, dismesso, poi rilucidato, soppresso e infine riportato a gloria. Parlarono per molto tempo quel Templare e la ragazza, conosciuta in Amon con il titolo di Console Templare, ma la ragazza, che ora del Console non aveva più neanche le insegne, sembrava lì per ascoltare le parole di chi saggiamente l’aveva educata o di chi tante cose aveva già visto. Il volto di lui era caratterizzato da un profilo spigoloso, il naso aquilino, gli occhi infossati tra rughe e zigomi prominenti, le mani ossute erano ancora vigorose, callose lì dove per tanti anni c’era stata una spada. Il volto di lei era fiero, morbido sulle guance, e alto negli zigomi così giovani, le labbra increspate in una smorfia e infine quello sguardo, che non sapeva di delusione, ma di quell’amarezza che raramente un Sacerdote, così corroborato dai poteri divini, può sentire. Come una ferita, solcava quelle iridi e sembrava non rimarginarsi.

“Il sogno mi portava alla festa in onore di Danu di solfeggiante, quando ho richiamato i venti e sembrava che quel mare impetuoso piano piano facesse affondare tutto, le navi, la gente, ogni cosa si immergeva come avviluppata da una forza potente…” Lei descriveva con incredula espressione quel sogno, così qualcuno disse di aver sentito passando accanto ai due. Lui la ascoltava con serietà, saettando con quegli occhi vividi nello sguardo liquido di lei.

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Quel duetto aveva intrecci di familiarità, ma anche di rispetto e consolazione. Si dice che parlarono così a lungo che venne il mezzodì e ancora nessuno osava disturbarli e che poi, nel pomeriggio, respinti tutti i dispacci che gli ufficiali cercavano di consegnarle, i due si diressero altrove, lei al braccio di lui, a volte col capo sulla sua spalla, a volte a guardarlo fiduciosa, e infine sparirono in un lontano selciato tra le campagne di Seliand.

Dicono che avessero guardato a lungo il mare e che infine separandosi lei trovò la strada per tornare alla Guerriera, o forse solo il modo di sopportare ciò che era stata addestrata a sopportare. I bassi istinti, il nemico più forte, serrare le labbra e combattere, l’animo debole, la delusione. E che in fondo su quel volto che ordinava di riaprire i grandi cancelli ovest, qualcosa sembrava mutato per sempre. Come rotto.
E le spighe di grano sparirono dai riflessi dei suoi capelli.

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