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Qui i giocatori di The Miracle lasciano imprese, poesie, narrare eventi e grandi avventure avvenute e in svolgimento su Ardania. Linguaggio strettamente ruolistico.

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By Nui
#2965
*Un taccuino ricoperto di vecchia pelle grigia è riposto sul fondo di una borsa, celato da una quantità di cianfrusaglie inutili. Pietre lisce, gemme, pezzi di metallo avanzati dalla lavorazione degli stagnini, schegge saltate via dalle estrazioni minerarie, ma anche funghi, bacche, gusci di molluschi abbandonati, pezzi di corteccia secca coperti di resina. Tale involucro di fogli svolazzanti è da qualche parte della sacca, comunque non facilmente recuperabile in tempi brevi.
Le prime pagine riportano quanto segue*



Mio buon maestro,

Orifoglia mi ha portato qui, oltre il deserto.
Deserto. Il mare peggiore che abbia mai affrontato. E sì che insieme ne abbiamo viste di acque infuriate, di flutti insidiosi, di corpi gonfi a pelo d’acqua. Di vascelli inabissati.
Eppure continuo a pensare che l’arsura delle dune sia peggiore dell’avere le viscere colme d’acqua, che la lingua assetata sia la peggiore delle torture.
So che ti diresti concorde con me, sebbene io mi riferisca alla pura acqua di fonte, mentre tu penseresti al sidro e all’acquavite.

Mi sono lasciata alle spalle alcuni corpi, è vero, ma non ho dimenticato i tuoi insegnamenti.
Essere rispettosi per il sangue versato.
Diverso è stato per i tetri guardiani che vegliano il villaggio. Troppe zampe, troppi occhi, troppe punte alla lingua, troppa sete di sangue. Tutti di dimensioni troppo grosse.
Ma all’alba, col suo rossore, ero in vista delle prime costruzioni. L’avamposto con le sue sentinelle è stato il preludio alla breve traversata sul mare. Poi, davanti a me, una distesa di colori dorati d’autunno, brillanti e caldi.
Dopo tanta aridità, quale giardino è questo luogo?, ricordo di aver pensato.
Sono i giorni che precedono la vendemmia, i giorni in cui l’aria sa di mosto. L’odore che si sprigiona dall’uva al sole è pieno, inebriante, una promessa di delizia futura.
Ma sono anche i giorni di preparazione al duro lavoro, di una campagna che si animerà di voci e di canti, talvolta di danze per alleviare la fatica, mutandola in festa.

Aggirandomi in questo clima di attesa ho già trovato alcuni angoli che mi sono divenuti cari. Adatti a riflettere, a meditare, a trascrivere appunti. Memorie.
A questo forse avresti sorriso. È vero, non possiede molto da tramandare chi non ha vissuto che brevi sprazzi della storia umana.
Eppure non fosti tu a dirmi che, anche se invisibili agli occhi degli storici, lasciamo tutti delle orme al nostro passaggio?
Chi con l’acciaio temprato, chi con l’inchiostro, chi con ombre di carbone.

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Sto proseguendo lo studio delle forme di vita. Muschi, licheni, piccoli crostacei, scarafaggi di grosse dimensioni o quadrupedi lanosi e da soma.
Temo di avere troppi appunti e idee poco chiare.
Così mi lascio distrarre dall’isola, che ha tanto da mostrare.
Oltre i campi sono ben visibili i profili di numerose strutture più imponenti. Mi chiedo quale sia quella di cui mi hai tanto parlato. Ho scorso con le dita le targhe davanti alle più vistose, pur senza successo.
In verità, di alcuni di questi luoghi non comprendo la natura.
A uno è precluso l’avvicinarsi. È pericoloso, mi è stato detto. Più pericoloso di quel che c’è sul lato continentale?, mi chiedo.
Finora ai miei occhi questa piccola fortezza è rimasta immota, come la vecchia pelle che certi animali si lasciano dietro. Ne osservo la vetta dal rilievo dove è posta la statua dell’Uccisore del drago; ne studio la sommità priva di merlature, ma che con i suoi conci chiazzati di sangue ne costituisce l’aspetto più minaccioso.
Se non altro, ora possiedo un nome.

L’altro luogo presenta una soglia.
Non mi è concesso di varcarla né di scorgere quello che si trova dall’altro lato.
Credo di averne vista una simile nei pressi delle mura dell’Oasi. Che esista un vincolo? Che ce ne siano altre in altri continenti?


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Ma non mancherò di riferirti che nell’osservare il varco credo di avervi scorto come un viso d’uomo. O era forse un rimando del mio? Ma è forse così scavato, così smunto?
Sarà per la superficie mutevole, ma ne erano visibili solo le guance fino al mento. Come pareva muoversi quella bocca sottile! Come se volesse parlare, ma senza che fosse dato di udire alcun suono. Allora mi sono fatta vicina e ho chiamato il suo nome. Quante domande mi porto dietro come un fardello, tu lo sai!
Allontanata ma non abbandonata. Instabile ma non mancante. Presenza e assenza insieme, offuscata. E un un sussurro indefinito quando la mente è tra il sonno e la veglia.
E allora quella terrea faccia ha cadenzato una singola parola, non detta, no, ma chiara ai miei occhi, poi in un attimo è ridivenuta piatta superficie, rimandando nient’altro che un vago riflesso di me.


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