
Erano ormai passate molte settimane dal giorno in cui Morgrim aveva contratto la malattia del drago.
Si era recato a Rotiniel proprio per indagare su quello strano fenomeno: chi se non il Primo Rodolan di Dera era più indicato per risolvere un tale mistero? E invece proprio in quella città, nonostante tutte le precauzioni, lo stesso djaredin venne contagiato: da quel giorno violenti spasmi allo stomaco e lancinanti dolori alla testa avevano afflitto i suoi giorni e le sue notti.
Per non parlare dell’aspetto esteriore, le sue sembianze ricordavano quelle di un drago, una sorte beffarda per un nano discendente da un’antica stirpe di cacciatori di draghi.

Ma Morgrim aveva interpretato in questi eventi il volere di Dera, che sicuramente lo stava mettendo alla prova, anche se il fine di questa prova era incerto, misterioso, avvolto, nella nebbia, come il Dio stesso.
In quelle lunghe settimane dopo alcuni tentativi di ricerca della cura falliti, Morgrim aveva atteso nella sofferenza del corpo, ma nella serenità dello spirito, un segno, una via da percorrere.
E finalmente il segno giunse, anche se non di buon auspicio, almeno all’apparenza.
La cura era stata trovata, ma era finita nelle mani degli elfi, già questo era un cattivo presagio. Non si trattava però di elfi normali, ma una sorta di “ribelli”, disposti a qualunque nefandezza, anche uccidere un membro della propria razza, pur di raggiungere i propri scopi; questi elfi inoltre erano alleati con gli assassini dalla pelle scura, i cosiddetti drow, di cui i nani avevano già avuto modo, nel recente passato, di saggiare l'efferatezza.
La prova diventava sempre più dura da affrontare, ma il nano dentro di sé sapeva che quella era l’unica strada percorribile.
Decise quindi di incontrare i rappresentanti di questi elfi, in particolare quello che sembrava il capo, che si faceva chiamare Feanaro, il quale lo convocò a Tremec.
Giunto alla locanda di Tremec si accorse che l’elfo aveva portato con sé i suoi scagnozzi, ma la paura era un sentimento alieno ad un nano, se pensavano di intimorirlo avrebbero dimostrato di non conoscere la razza djaredin.
Feanaro non gli sembrava poi così diverso dagli altri elfi, gracilino e dall'aspetto innocuo, anzi dopo aver parlato con lui per qualche istante, pensò dentro di sé che ciò che aveva sentito di terribile sul suo conto, forse non era vero.


Ma ben presto Morgrim capì che non era Feanaro a comandare il gioco.
La trattativa, se così si poteva chiamare, veniva condotta da un elfa di sesso femminile, giunta per ultima alla locanda. Non disse il suo nome, ma in compenso si rivelò arrogante e presuntuosa, uno stereotipo di come nell’immaginario djaredin sono rappresentati quegli elfi che imprigionarono nel sottosuolo i nani per lunghi secoli.
Più l’elfa parlava, più Morgrim poteva vedere chiaramente, fissandola negli occhi e trapassandole il corpo, come la sua anima fosse nera, e il suo cuore di ghiaccio.
Se quello fosse stato un duello il nano non avrebbe esitato ad estrarre il suo martello e a frantumarle tutte le ossa una per una, fino a ridurla in cenere.
Ma sapeva che doveva tentare di evitare lo scontro, gli djaredin se pur popolo fiero, amano la vita più della guerra, la birra più del sangue: la sua mente e la sua coscienza lo guidavano verso la ricerca di una via che non offendesse gli dei, ma che potesse evitare uno scontro aperto.
Da quando aveva saputo che tali elfi avevano la cura, il nano aveva deciso cosa avrebbe offerto loro in cambio della propria guarigione: non sarebbe stata una trattativa, non nel senso stretto del termine, ma avrebbe dato loro un’opportunità, un’opportunità di salvezza, di chiudere per sempre le ostilità con gli djaredin. Un trattato di non belligeranza che avrebbe posto fine alle incursioni di alcuni gruppi di nani che, nel tentativo di arricchirsi e al tempo stesso vendicare il passato, compivano incursioni nella caverna dei drow per massacrare gli elfi dalla pelle scura. Era il massimo che poteva offrire, anche troppo secondo i nani più reazionari e conservatori.
Molto djaredin, a torto o a ragione, consideravano infatti gli elfi dalla pelle scura un cancro da eliminare dalla faccia di Ardania.
Ma si trattava sempre di elfi, non c'era da stupirsi se non avessere capito quanto potesse valere per un popolo guerriero, i cui spiriti erano forgiati nella dura roccia, un trattato di non belligeranza.
Essi infatti non si accontentarono e, in particolare l’elfa richiese in cambio della cura anche i minerali pregiati della sacra montagna, il cuore stesso del regno djaredin, creato dalla Triade per far sopravvivere e prosperare il popolo nonostante la segregazione sotto terra.


Folli! Folli! Folli!
Avevano osato troppo, e soprattutto non aveva afferrato la possibilità generosa, almeno nella cultura e nelle mentalità djaredin che gli veniva offerta. Avrebbero pagato a caro prezzo questo errore.
Mentre Morgrim si allontanava da Tremec solamente un’incertezza tormentava il suo animo, ovvero se fosse giusto coinvolgere il suo popolo in questa faccenda, che dopotutto riguardava solo lui: pensò tuttavia che fosse giusto lasciare decisione ai suoi cugini, appena arrivato a Kard avrebbe convocato una riunione di urgenza.
Agli occhi di un umano o di un elfo quel incontro sarebbe sembrato fallimentare, agli occhi dello djaredin invece simboleggiava la fine dei tormenti e delle sofferenze, in un modo o nell’altro.
Se avesse avuto la cura il suo corpo sarebbe tornato alla normalità, al contrario sarebbe andato incontro alla morte, poiché da tempo sapeva che quella malattia era letale, ma almeno lo avrebbe fatto nella grazia degli Dei: uno djaredin non ha paura della morte se conscio di aver seguito il proprio cammino, soprattutto un sacerdote di Dera.
La fine in un modo o nell’altro era vicina.
E questo rafforzava il suo spirito.
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