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By Zenon Valdemar
#52792
Nella confortevole sicurezza del suo ufficio nel cuore dell’Accademia riapre il vecchio diario, ne sfoglia le pagine con cura osservando gli appunti di una vita passata cercando isole di lucidità in un mare di follia, bramando risposte da una fede che non riusciva a dargliene, osservando il mondo con gli occhi di un naufrago in un oceano di incertezze.

Giunge alla prima pagina bianca, non ancora toccata dalla trascrizione dei suoi pensieri, intinge la punta della vecchia piuma d’oca nel calamaio e con una lentezza spasmodica, innaturale, riprende la traccia abbandonata da tempo.

Lentamente, come se ogni goccia d’inchiostro fosse una stilla del suo sangue.
Lentamente, come se ogni parola fosse incisa con le unghie in un blocco di granito.


“Il tempo inizia ad assumere un aspetto contorto, lunghissimo nella ricerca di un indizio e altrettanto fugace quando lo trovo e lo devo esaminare.
Sfogliavo le vecchie pagine e cercavo di sorridere, anche un minuscolo accenno ad una parvenza di sorriso, osservando quanta follia e quale mucchio di sciocchezze io abbia riversato in esse: ma anche questi momenti di intima ilarità mi vengono portati via.
Mi sono affacciato di nascosto in biblioteca ad osservare il lavoro degli altri: la mia riconoscenza verso Jolet, Niivae, Delia e gli altri è infinita, stanno facendo ciò che dovrei fare io, ma non riesco a dimostrarla, non ricordo più come si fa. I miei pensieri sono volti ad altro, a sezionare pezzo per pezzo le informazioni che ho raccolto negli ultimi mesi.

Trascorro molto, troppo tempo nell’esaminare i resoconti di Niivae e Delia, i testi recuperati da Jolet in qualche bizzarro nascondiglio fra gli scaffali, seziono ogni parola minuziosamente, come se dietro ogni singola lettera, sento, ci fosse un universo di possibilità che non ho contemplato ancora. Solo più domande, infinite domande, e sempre meno risposte, come se il dettaglio chiave mi sfuggisse dinanzi agli occhi. Sono tormentato dall’ignoranza, eppure da qualche parte nella mia mente sento di avere già la risposta, so già chi è che si fregia del titolo di Grande Ombra.
Il desiderio di calcare Edorel in cerca dei tre, parlare con loro, ottenere soddisfazione a qualsiasi costo, si tramuta in ossessione.”


Riprende la piuma fra le dita, dopo lunghi istanti di un sonno improvviso, sollevando la testa dalle pagine e facendosi beffe di sè stesso per l’inchiostro in parte presente sul suo volto.

“In fondo fra Vashnaar e Oghmar non c’è molta differenza: gli altri Dei ti spingono a venerarli e onorare la loro dottrina con qualsiasi mezzo, concedendoti una fugace gioia nel pensare di esser divenuto, ai loro occhi, il migliore dei servitori.
Chi venera, per così dire, Vashnaar e Oghmar, non si ferma a questo, non vede solo un trono ai cui piedi riversarsi con doni e testimonianze di atti di fede. Questi due non sono un termine di paragone da tentare di eguagliare invano.
Sono una linea di confine, sono quella soglia da superare, il Dio diventa un concorrente, solo un gradino da superare con la forza smisurata della propria ambizione.

Era così per i più ferventi “adoratori” di Vashnaar, coloro che hanno cercato di raggiungere vette di depravazione e sapere oscuro inimmaginabili.
E’ così per lui, perché so che lui sta arrivando con questo scopo.
E’ così per Oghmar: la Supremazia ha ragione, quella che ritenevo pura invenzione per ribaltare una punizione divina è in realtà altro, un dono per aver superato il Grigio Velo.”


Poggia la piuma nel piccolo calamaio e prende una lunga pausa, sfilando un sigaro di erba nosperiana dalla scarsella. Lo sfrigolìo della foglia bruciata dalla fiammella della candela è intenso, quasi fosse un richiamo alla realtà in una sala così silenziosa.
Il gusto nei suoi polmoni è forte, sopprime un accenno di tosse, una tosse che lo sta consumando: “Troppa erba, amico mio”, diceva il buon padre Trevor, “può dar gioia alla mente, ma ti divorerà. Non abusarne.”

Fuma rapidamente, con avidità, la foglia si consuma veloce e diventa poco più di un mozzicone: con calma riprende la piuma e svolta alla pagina successiva.


“Vorrei ringraziare nel giusto modo chi mi aiuta, ma non ci riesco.
Vorrei mostrare vicinanza a coloro che soffrono, che si sacrificano per questa strana guerra, ma sono lontani dal mio animo.
Ogni giorno che passa perdo un pezzo di me, risucchiato da un vortice nero al centro della mia mente: osservo i giorni volar via, guardo la vita con occhi diversi, gelidi, privi di passione.
Quello che sentivo per gli amici sta diventando un’ombra: anche per i Cavalieri e per Lady Marianne, che tanto hanno fatto per salvarmi da quel pozzo fetido di oscurità e sangue.

Quello che sentivo per lei sta svanendo: ricordo il suo volto, ogni singolo dettaglio, la ciocca d’argento, qualsiasi minuscola intonazione della sua voce, ma non sento altro, come se fosse solo un’ennesima pagina registrata nella vita di uno studioso.

Mi stanno portando via tutto, ora dopo ora: il viscido seme impiantato nella mia testa non è mai stato estratto, è ancora là, e non riesco a liberarmene: e quello che mi fa più paura è che non sento più la paura, sento di sapere cosa ci attende alla fine di questo contorto sentiero oscurato dal Trio, ma non lo temo affatto, né un tremolìo delle mani, né un accenno alla fuga.
Sono loro la mia vera ossessione… ma è vendetta che cerco? Oppure quello che sentivo, quando ero parte di loro, della loro mente, tenta di sedur…”


D’improvviso s’interrompe, iniziando a stringere con crescente forza la piuma, incurante dell’inchiostro che gli macchia il palmo.
Prima una, poi due, poi altre gocce di sangue sgorgano dal naso, macchiando la pagina in punti ancora intonsi: stavolta fa più male del solito, lo stiletto nella mente viene ruotato con lentezza spasmodica.
Ma il dolore passa in fretta, come non era mai accaduto finora: sente ancora l’intrusione farsi spazio ma non gli crea sofferenza nel corpo.

Fuori albeggia, una brezza gelida dalla finestra tocca le sue spalle, malgrado sia estate: la pelle reagisce, i peli si rizzano, ma lui non è più qui.
Ore fa scriveva le sue memorie, per ore è rimasto immobile, la pagina sotto di lui ormai è quasi del tutto rossa.
Con una lentezza spasmodica ed innaturale, chiude il diario e lo ripone in un cassetto.
Da quello successivo recupera una vecchia pergamena consunta: la sua mano, contorta in una presa strettissima intorno alla piuma, riprende ad incidere su quella vecchia pergamena, tenuta nascosta per mesi se non anni, parole e disegni…sono queste parole? No, tutto sembrano tranne che parole. E i disegni... i disegni...

Ciò che disegna accresce il terrore dentro di lui, attimo dopo attimo: non sentiva più niente fino a quel momento, e ora trema come una foglia.
Come un bambino impugna la piuma come un coltello e inizia ad incidere nelle carni del libro qualcosa. Qualcosa.




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