Parlare di economia in senso tradizionale all'interno del mondo elfico è particolarmente complesso. Un sistema economico classico si basa sulla produzione finalizzata al guadagno, sia esso materiale o in termini di status. Questo approccio vale per gli elfi soltanto quando si relazionano con realtà esterne al loro mondo. All’interno della loro società, invece, la produzione risponde principalmente ai bisogni del territorio e della comunità, piuttosto che a logiche di profitto.
Il commercio con l’esterno è infatti ridotto al minimo. Le importazioni riguardano solo beni non presenti nel territorio elfico o manufatti umani considerati particolarmente pregiati o in voga in un dato periodo. L’esportazione segue criteri simili, con un occhio sempre attento alla sostenibilità e all’autosufficienza.
Il conio elfico emette ogni anno una quantità predefinita di monete d’oro. Questa cifra non si basa sul prodotto finito, bensì sulla disponibilità delle materie prime, considerate patrimonio collettivo. I consigli cittadini, insieme ai guardaboschi e alle guardie, monitorano costantemente lo stato delle risorse naturali. Quando un cittadino preleva una certa quantità di materiale, deve registrare la “sottrazione delle risorse” presso i magazzini pubblici. Questo sistema permette da un lato al conio di pianificare l'emissione monetaria dell’anno successivo, e dall’altro al consiglio di valutare eventuali periodi di “proibizione”, per evitare uno sfruttamento eccessivo di determinati elementi naturali.
Una volta registrata, la risorsa può essere utilizzata liberamente da chi l’ha prelevata. Questo meccanismo ha generato un’economia basata sull'interscambio delle competenze: ogni elfo è tenuto ad apprendere almeno un mestiere, trasmesso sin dall’infanzia. Se, ad esempio, si ha bisogno di un falegname per costruire delle sedie, ci si aspetta di poter contraccambiare il favore offrendo la propria arte o manodopera.
Coloro che non riescono a distinguersi in alcuna arte vengono assegnati a mansioni amministrative, come la gestione dei rifiuti, la pulizia urbana o il servizio postale. In questi ruoli ricevono un compenso in moneta, che permette loro una vita dignitosa, sebbene ai margini della Collettività elfica — un concetto che approfondiremo in seguito.
Oggi, la produzione elfica non differisce sostanzialmente da quella umana, se non per l’elevatissima qualità della manifattura. Le arti fondamentali sono simili a quelle delle altre razze, compresi i nani. Tuttavia, questa somiglianza è frutto di un’evoluzione storica: prima del periodo dei falò senza luce, l’arte elfica raggiungeva vette irraggiungibili per qualunque altro popolo. Era un’epoca di autentico splendore creativo.
Purtroppo, dopo quel periodo oscuro, si è assistito a un progressivo declino: una sorta di “oscurantismo artistico” che ancora oggi sembra soffocare ogni nuovo slancio creativo. Gli elfi, un tempo dominatori culturali di Ardania, faticano a riconquistare la superiorità artistica che li aveva resi celebri nei secoli passati.
Il concetto del tempo, nella vita degli elfi, assume una dimensione peculiare e merita un’attenzione particolare. Un elfo, in condizioni ottimali, ha una speranza di vita compresa tra i 1350 e i 1400 anni. È in questo arco di tempo che l’elfo sente il cosiddetto Canto del Tulip, presagio del termine del proprio ciclo vitale. Non si registrano, negli ultimi quattromila anni, casi di elfi che abbiano superato tale soglia.
Sebbene dunque la vita elfica sia più breve rispetto a quella dei nani, l’assenza di una struttura sociale rigidamente organizzata — come accade invece nella società di Djare — lascia l’elfo in una condizione di perenne quiete, che talvolta sfocia in noia. Ciò è dovuto anche all’impostazione stessa della Collettività Elfica, che scoraggia l’arrivismo, il desiderio e perfino, in alcuni casi, la possibilità di accumulo di beni materiali o immateriali. Il tempo, quindi, scorre con lentezza, segnato da obblighi e impegni che il Concilio cittadino o la stessa Collettività assegnano al singolo elfo.
Come sarà approfondito successivamente, ogni elfo attraversa un lungo periodo di istruzione e apprendistato, pensato proprio per favorire l’integrazione all’interno della società e mitigare la percezione di uno scorrere del tempo altrimenti opprimente. Una volta conclusi tali obblighi, nella quotidianità l’elfo non si discosta poi molto dall’umano quanto a ricerca di svago, ma tende a privilegiare attività che colmino il tempo in maniera più duratura rispetto a una semplice rissa in locanda o a una bevuta tra amici.
L’educazione formale ricevuta e la predisposizione culturale spingono l’elfo a coltivare interessi profondi e continui, spesso collegati alla propria attività lavorativa: un falegname, ad esempio, potrà dedicarsi anche all’intaglio ornamentale, terminando un mobile dopo ulteriori settimane di perfezionamento. Altri si dedicano alla lettura o alla scrittura, approfondendo temi in cui eccellono per conoscenza.
Non è raro imbattersi in gruppi di elfi che si dedicano per giorni interi alla pittura, scambiandosi poi le opere realizzate per decorare le proprie abitazioni. Tra i passatempi prediletti spiccano inoltre i viaggi, quando le condizioni lo permettono, o le riunioni collettive per raccontare storie — spesso lunghissime — che vedono anche gli ascoltatori intervenire e contribuire alla narrazione.
Il concetto di istruzione, nella cultura elfica, è molto più ampio di quanto si possa intendere in altre società. Esso comprende l’intero processo di avviamento all’integrazione nella Collettività Elfica, un cammino lungo e articolato che plasma l’individuo tanto sul piano culturale quanto su quello spirituale e sociale.
Un bambino elfo lascia la casa natale intorno ai 5 anni, età in cui ci si aspetta abbia già acquisito padronanza nel camminare, nel parlare e nella comprensione dei concetti di ruolo e disciplina. Da questo momento, entra nella cosiddetta Prima Radura, che lo accoglierà fino al compimento del quindicesimo anno di età.
Durante questo primo periodo formativo, l’elfo viene istruito nei modi comportamentali fondamentali e nelle conoscenze essenziali, incluse la lingua elfica e il linguaggio comune. Superata questa fase, dai 15 ai 45 anni, riceve una formazione avanzata che comprende i classici della letteratura, l’educazione ai costumi delle altre civiltà, e un ampio spettro di discipline culturali, intese a coltivare in lui un senso di raffinatezza e conoscenza, come si addice a un elfo.
Nel caso in cui, al termine di questo percorso, l’elfo non venga ritenuto idoneo a proseguire, egli è destinato a prestare servizio per la Collettività, rinunciando al proseguimento degli studi. Se invece viene ammesso, entra nella Seconda Radura, dove affronta un apprendistato lavorativo della durata di 50 anni. In questo periodo l’elfo impara una professione — che può spaziare dall’artigianato alla composizione, dalla pittura al canto — con l’obiettivo di trasformarsi in un lavoratore abile, preciso e profondamente integrato nel proprio ruolo.
Al termine di questo ciclo, a 95 anni, l’elfo è chiamato a compiere una scelta cruciale: può dedicarsi stabilmente al mestiere appreso, opzione riservata a coloro che si sono distinti come veri prodigî nella loro arte (evenienza piuttosto rara), oppure può intraprendere il cammino verso la Terza Radura.
Questo terzo e ultimo stadio dura 55 anni e si concentra sull’arte della sopravvivenza, del combattimento o della magia, a seconda delle inclinazioni del candidato. È previsto anche un servizio obbligatorio di 10 anni presso una guarnigione dell’esercito elfico. Compiuti i 150 anni, l’elfo ottiene la piena autonomia e può finalmente scegliere il proprio destino. Le Radure, in questo percorso, rappresentano tappe simboliche, come radure lungo un sentiero che conduce all’unione con la Collettività Elfica.
Durante questi 150 anni, l’elfo ha sempre vissuto sottoposto al giudizio della Collettività, e ha appreso come farsi parte di questo giudizio stesso, assimilandosi ad essa così come ogni ramo è parte del Tulip, e al tempo stesso lo è. Coloro che non completano l’intero ciclo delle Radure rimangono marginali e non sono ammessi ai ruoli di rilievo nella società elfica.
Non è raro che, dopo 150 anni di vita rigidamente guidata, l’accesso a una piena libertà risulti traumatico. Per questo, le città elfiche offrono sistemi di integrazione per accompagnare l’individuo in questa transizione. L’elfo può scegliere se prestare ulteriori 10 anni di servizio presso una guarnigione cittadina (in prossimità della propria casa natale), oppure dedicarsi per 10 anni a opere pubbliche, scegliendo liberamente il luogo in cui farlo. In quest’ultimo caso, può mettere a disposizione l’arte appresa nella Seconda Radura per la manutenzione delle infrastrutture cittadine o per attività di assistenza sociale.
Mi accingo a scrivere questo piccolo trattato su consiglio del mio venerabile maestro, Hisie en’Yevia di Winyandor. Esso vuole riassumere, o almeno ha l’ardire di tentare, le credenze diffuse fino ai giorni d’oggi, e le conoscenze basilari che ogni elfo che si appresta allo studio dell’Arte deve necessariamente conoscere. Spero vivamente che esso sarà utile per i giovani fratelli e per chiunque sia mosso da sempre degni moti di conoscenza.
Come ogni elfo sa, la magia venne donata al popolo elfico tutto per volere di Morrigan. Tramite il Globo della Conoscenza, la Signora delle Stelle instillò il potere primo nel nobile elfo Nuireletion, che a sua volta lo trasmise ai figli Amanya e Isilwen. Da essi tali insegnamenti si propagarono, prima nella casata Quenya, e poi a tutta la collettività, dando origine all’ordine che brillò nei millenni come riferimento di ogni mago, ovvero l’Ordine dell’Antica Via.
Ma tutte queste sono storie ben note tra gli Eldar, che non approfondiremo qui.
Riporterò un passo dello scritto “Su Naurbrannon Tindomegul e gli accadimenti della guerra Mor’Quessir”, scritto da Quaeril Uthalas, giunto fino a qui grazie alle enormi conoscenze del mio Maestro:
“Naurbrannon Tindomegul fu un mago illustre della Splendente, che visse grandi avventure e portò enormi mutamenti nella storia di Ardania tutta. Egli fu allievo di Echtelion Axanthur, noto membro dell’Accademia della Luna di Ondolinde.
[…]
L’evento cardine di cui Naurbrannon fu protagonista fu certamente la terribile, ultima guerra combattuta dagli elfi contro i Mor’Quessir, i Drow. Si era nel periodo in cui, dopo una pace relativa e perigliosa, i Drow avevano iniziato nuovamente ad infestare il Doriath senza timore; vennero sorpresi ripetutamente in operazioni di scavo e ricerca nel deserto elfico ed alcuni mezz’elfi furono scoperti a fornire informazioni, tratte dalle biblioteche elfiche, ai seguaci di Luugh.
La battaglia più sanguinosa avvenne proprio nel deserto elfico, dove i Mor’Quessir difesero strenuamente uno scavo da loro aperto; vinta la durissima battaglia, gli elfi scoprirono nel sito un’antica, misteriosa verga, costruita di uno strano legno dorato, molto leggero, ma robustissimo.
Nessuno dei sapienti elfi aveva, però, conoscenza alcuna dell’artefatto e Naurbrannon si assunse il compito di un’ardua e strenuante ricerca in antichi tomi di sapere, sparsi nelle varie biblioteche del continente elfico. Dopo un periodo di faticosa consultazione, egli scoprì infine un tomo che faceva riferimento alla verga e descriveva dettagliatamente un arcano rituale legato ad essa. Purtroppo, gli effetti del rituale non erano dettagliatamente descritti nel tomo, ed i governanti degli elfi non osarono rischiare di evocarne il potere fino a che la pressione delle orde drow sui regni elfici non si fece eccessiva.
Privi di una vera possibilità di scelta, alla fine gli elfi decisero di evocare il potere del rituale, anche se i precisi effetti non erano stati rivelati neppure dalle successive ricerche di Naurbrannon; fu Naurbrannon stesso ad organizzare il rituale, che si svolse nella cittadina di Ilkorin, dove in cinque enormi roghi fiammeggianti vennero gettati oro, ossa, un teschio e due zaffiri: al centro del cerchio di fuoco, venne piantata la misteriosa verga. Immediatamente, un terremoto di porporzioni enormi scosse il terreno, mentre il potere dell’Arte veniva scatenato. Al termine della conflagrazione, in mezzo ai fuochi comparve un golem d’oro, con gli zaffiri per occhi. Egli si proclamò Guardiano delle Conoscenza e mise alla prova gli elfi. Luxor, oggi Maestro della Via dell’Aria, si fece avanti ed avviò una schermaglia verbale con il golem, dalla quale uscì vincitore. Grazie a questo, il Custode aprì un portale che condusse gli elfi di fronte ad un misterioso artefatto parlante, il Globo della Conoscenza. Il Globo si rivolse agli elfi, rivelando loro di essere il guardiano dell’antica magia elfica, che avrebbe rivelato ai più meritevoli tra loro; grazie a tale conoscenza, infatti, agli elfi sarebbe stato dato il potere di scacciare il male dal Doriath. Detto questo, il Globo scomparve, assieme a Naurbrannon e Luxor, mentre tutti i loro compagni venivano riportati nel Doriath. In seguito si seppe che, oltre ai due maghi già citati, anche Mewan di Ondolinde e Zoltrix Dorlas di Tiond furono chiamati dal Globo. Cosa esattamente l’Artefatto abbia rivelato ai quattro maghi non è dato sapere, ma è noto che ciò riguardava il dono della magia e le modalità con cui essa fu data agli elfi dalla stessa Dea Morrigan.
Il ritorno dei quattro maghi, illuminati dalla Dea, donò nuovo ardore alle stanche truppe elfe, e la rinnovata fiducia nel potere della magia e nella benevolenza di Morrigan permisero agli eserciti degli elfi di sconfiggere i malvagi Mor’Quessir, liberando il Doriath dalla loro minacciosa morsa.
Inoltre, le rivelazioni di Morrigan ai Quattro, gettarono le fondamenta per la costruzione di quella che in futuro sarebbe divenuta l’Accademia Elfica di Magia.
Dopo aver condotto a termine questa titanica impresa, Naurbrannon si dedicò principalmente a custodire la Via del Fuoco dell’Accademia…”
Questa è la storia che diede origine al maggior centro per lo studio della magia che il popolo elfico unito abbia mai avuto dopo i Falò senza Luce, o almeno nella storia recente. Inoltre è degno di nota, perchè fu uno dei rarissimi eventi in cui il Globo della Conoscenza fece la sua comparsa, così come per Nuireletion.
L’Accademia di Magia Elfica, nata da questo evento, raccoglieva le conoscenze diffuse fino ad allora nel popolo elfico, e quelli presi direttamente dalla Dea tramite il Globo, unendoli in un unico insegnamento.
Introdusse una vera e propria “scuola”, dove il cammino di ogni mago elfico (Istar in quenya/telerin, Ithron in sindarin) era formalizzato, e ben distinto a secondo della propria indole e della Via che naturalmente era portato a seguire.
A tal proposito, la distinzione in Vie, di cui tratteremo nello specifico poi, pare sia sempre esistita nel popolo elfico, e che discendesse direttamente dagli insegnamenti di Isilwen, figlia di Nuireletion, che notoriamente si prodigava per una diffusione della magia agli elfi tutti in maniera aperta, rispetto al fratello Amanya che si prodigava affinchè il frutto dei suoi studi rimanesse nella casata Quenya.
L’istruzione dell’accademia mirava a sostituire il rapporto allievo-maestro che fino a quel momento era il maggior mezzo di trasmissione delle conoscenze dell’Arte (definizione in riferimento ad Arte Arcana, di origine quenya, Curu, nella lingua dei padri) o Dono (Dono di Morrigan agli elfi, Eruanna come termine riconosciuto storicamente nelle varie lingue elfiche).
La storia recente porta le testimonianze di una nuova comparsa del Globo della Conoscenza.
Ad entrare in contatto con esso furono in tale occasione i teleri Belgarath e Quaeril Uthalas, e la sindar Ely’en Feery.
Le circostanze in cui questo avvenne risultano più misteriose e meno documentate dell’incontro di Naurbrannon; pare che spinti da misteriosi sogni e visioni, a volte contrastanti, tale elfi, assieme all’Accademia di cui facevano parte, entrarono nei giochi di potere di creature sovrannaturali, che poi vennero identificati come gli Araldi di Morrigan.
Secondo un tomo ritrovato nella cripta di un antichissimo e potente Lich, tali esseri, Miur e Bahel, erano agenti della Dea, il primo suo braccio destro, ed il secondo suo agente su Ardania.
Tutto era veicolato da visioni e sogni che apparivano continuamente ai maghi elfici, che poi compresero non essere altro che i mezzi con cui i due araldi cercavano di offuscare o schiarire le loro menti.
Le dinamiche dei fatti non sono note, ma sembra che tramite un oscuro rituale di origine Drow, I maghi elfici riuscirono a sventare i tentativi di Miur di ascendere al posto di divinità, imprigionandolo in un altro piano di esistenza.
Fu proprio al termine del rito che fece la propria comparsa il Globo: i tre maghi, che conducevano il rituale, entrarono in contatto con esso così come in passato accadde ai loro predecessori. Quello che videro o che apparì alle loro menti rimane un mistero celato nei loro ricordi, ma fatto sta che divenne base per renderli degni di guidare successivamente l’Accademia, fino alla recente e triste situazione di abbandono in cui questa istituzione versa.
Non voglio prendermi responsabilità di aggiungere altro ai pochi fatti e testimonianze giuntami, e la verità precisa rimane solo nelle loro menti o in qualche polverosa libreria. Se il maestro lo vorrà, avrò piacere a continuare tali ricerche.
Il potere della nostra magia deriva direttamente dal Globo della Conoscenza, e quindi direttamente da Morrigan e indirettamente dai Valar che hanno contribuito “loro malgrado” alla sua creazione, ma che hanno poi permesso alla Figlia di utilizzare gli elementi del creato (elementi pervasi anche dal loro potere) racchiusi nel mistico artefatto.
L’energia magica proviene da un potere di origini divine, la Magia (Ingol per i quenya, Gul per sindar) appunto, che pervade il nostro corpo, intangibile ed etereo. Tale potere pervade ogni individuo in cui scorra sangue elfico, ma la sua energia è latente, o debole, nella maggior parte della popolazione: potrà in alcuni casi essere sviluppata, ma solo se sussistono determinate condizioni.
Il Mana è la forza interiore che permette di gestire e manipolare l’energia magica, ed è l’effettivo veicolo del potere di Morrigan, attraverso il quale il mago può incidere sul mondo circostante tramite gli incantesimi.
Tramite il Mana, durante la preparazione degli incantesimi, il mago (Istar in quenya/telerin, Ithron in sindarin) riesce a mettere in comunione la propria Magia per brevi istanti con il potere racchiuso dal Globo, servendosi di gesti, parole e reagenti come canalizzatori per l’operazione.
Il luogo di provenienza di questo potere, traboccante delle forze primali raccolte dalla Dea, è detto Piano della Men, e viene comunemente assimilato al Globo della Conoscenza, essendo in esso di fatto racchiuso. Ogni incantatore può evocare da tale luogo gli elementi necessari al componimento dell’incanto.
Il Mana può essere considerata come la “volontà” e al tempo stesso la “capacità” di domare le energie che giungono dalla Men.
In taluni casi, quindi individui, il Mana può essere insufficiente, o quasi assente, tanto da scoraggiare tentativi di studio o di sviluppo, mentre in altri casi può non esserci una predisposizione naturale al suo; in realtà è più raro che tali condizioni siano verificate, che non il contrario. Il Mana è uno dei prerequisiti fondamentali per lo sviluppo del potere della Magia insito in ogni elfo.
Il Mana quindi è spesso considerato il primo obiettivo del mago, e la sua crescita e il suo sviluppo è ritenuto fondamentale.
Tale crescita richiede lo studio e l’esercizio di alcune attività, che sono connaturate all’istar e che partecipano direttamente o indirettamente al processo di sviluppo. Esse sono parte integrante dello studio magico, arricchiscono e rafforzano il Mana, indi completano il mago.
“Quando gli dei crearono gli elfi, Morrigan non era del tutto soddisfatta della Visione del creato: ella voleva donare infatti parte della sua essenza alla razza che avrebbe abitato Ardania e in particolare le meravigliose foreste del Doriath.[..]
Salì allora in cielo, nel punto più alto del Creato, e per un infinitesimale istante catturo’ tutta la Luce irradiata su Ardania, la quale fu immersa nell’Oscurità per una frazione di secondo talmente minuscola che nessuno, Dio o mortale, se ne accorse. Messa al sicuro l’aria impregnata della Luce di Beltaine, scese nelle profondità dell’Oceano, a prelevare la sabbia del fondale più fondo e cupo che esistesse, trovando in essa l’essenza delle acque di Earlann. Fu poi la volta della terra in cui affondavano le radici del più antico albero che dimorava nelle foreste del Doriath, e anche il potere di Suldanas era ottenuto. Infine scese al centro del più terribile vulcano esistente, che squassava le montagne e le valli intorno a se in un fragore assordante, attraverso una galleria che si estendeva in un oscurità senza tempo nelle viscere della terra, fino a che non giunse alla camera dove la lava ribolliva, rigurgitante la bramosia di guadagnare la superficie. Morrigan catturò anche l’essenza di Luugh attraverso la lava, e ritornò nelle sue stanze per continuare il piano che aveva progettato.
Unendo aria, acqua, terra e lava, creò così, all’insaputa degli altri Dei, il Globo della Conoscenza.”
Questa è un frammento della storia della Nascita della Magia, come si è tramandata ai giorni nostri, che i più conosceranno.
Il Globo, che allo stesso tempo racchiude il potere ed è mezzo di comunione con esso, è costituito dall’unione dei quattro elementi. A seconda della Via che si sceglie di percorrere, esistono quattro modi diversi di rapportarsi con tale potere.
E’ come se si trattasse di diversi punti di vista, ma sempre riferiti allo stessa entità.
Questo tipo di distinzione spiega intuitivamente il motivo per cui le suddivisioni in Vie nella società dei maghi elfica siano sempre esistite, e si siano dimostrate il più naturale ed efficace sistema di aggregazione e identificazione degli studiosi.
L’accademia di Magia Elfica, ad esempio, non ha fatto null’altro che recuperare le tradizioni in vigore fino ad allora, codificandole in un sistema di istruzione ben diviso e differenziato.
La storia narra che fu lo stesso Naureletion a comprendere questa grande verità, rivelandola ai propri figli poco prima di sparire per sempre. Fu la figlia Isilwen a svilupparla raccogliendone l’ eredità, e divenne poi col tempo concezione dominante anche all’interno dell’Ordine dell’Antica Via.
Grazie alla sua enorme diffusione tale dottrina sopravvisse ai terribili Falò senza Luce, mentre non si potè dire lo stesso (almeno non ve ne sono testimonianze) dei segreti più reconditi di quella scuola di magia che vedeva il capostipite in Amanya, luce all’occhiello della casata Quenya, e di cui l’applicazione più famosa era senza dubbio la leggendaria Tessitoria Arcana.
Negli ultimi millenni, sin dai tempi della Scissione delle Casate, questa filosofia è andata un po’ disperdendosi, così come i figli di Beltaine si disperdevano nel Doriath: gli elfi profondi conoscitori diminuirono sempre più, nacquero correnti di pensiero interne, e altre se ne svilupparono.
Ai giorni d’oggi non possiamo dire quanto del pensiero originale è giunto a noi, fatto sta che quel che è giunto è ancora dominante nelle menti dei moderni maghi elfici, anche se non è raro incontrare giovani apprendisti sprovvisti di tali conoscenze, o addirittura Istar che non se ne interessano.
Andiamo ad esaminare questa antica dottrina.
Riassumendo, le Vie a cui un mago può accostarsi, o cui può sentirsi più affine sono:
La comunanza delle vie con i punti cardinali deriva da immemori e antichi insegnamenti, indelebili ormai nella mia mente: “…cosicché ogni istar possa sapere sempre dove dirigersi nei momenti di smarrimento” (così ha sempre recitato il mio Maestro).
Degne di nota come visto sono anche le tradizioni inerenti agli abbigliamenti, differenziati a seconda della Via. Queste a dire il vero sono considerate da molti elfi, soprattutto i più giovani, come usanze un po’ conservatrici e nostalgiche, però ancora sono spesso usate. Capita spesso che tali usanze siano rispettate in occasioni di incontri formali oppure nelle occasioni pubbliche di una certa rilevanza.
Importanti chiarimenti, magari per un lettore inesperto, necessitano di essere dati.
La Via rispecchia il modo di essere del mago, i suoi atteggiamenti e filosofie, ma null’altro. Spesso soprattutto gli Edain, o i più giovani commettono l’errore di associare la vie alle diverse sfere e scuole di magia, ma ciò è totalmente errato.
La Via non interferisce minimamente con l’animo di chi la segue: un malvagio che scelga la Via dell’Acqua resterà probabilmente malvagio, e non sarà di certo la saggezza a cambiarlo, così come un animo generoso che seguirà la via del Fuoco userà quel terribile potere per scopi nobili.
Il Mago dell’Aria trae il suo potere dal vibrare dell’atmosfera e dalla luce che attraverso essa si irradia. Il loro passo è rapido e deciso, così come la loro parlata mentre ripetono le arcane parole degli incantesimi. La componente che prediligono nei loro incanti è principalmente verbale, e la loro voce risuona chiara all’orecchio di chi ha la sfortuna di udire le parole di un incantesimo mortale. Amano cimentarsi in lunghi dibattiti con i loro compagni per migliorare la loro Arte, preferendoli allo studio degli antichi scritti del sapere: per questo sono fra i più determinanti ed influenti nelle congreghe di maghi, anche se il loro bisogno di indipendenza li tiene spesso lontano da esse. Solitamente la loro voglia di agire, unita al loro carattere spesso mutevole, li porta a trovarsi nelle più svariate situazioni, dalle quali traggono grande insegnamento per la loro Via vivendo direttamente le esperienze. Molti teleri e mezzelfi seguono questa Via, per l’inquietudine del loro animo, curiosità o amore per il viaggiare.
Chi ha scelto la via dell’Acqua è come un lento e placido fiume che scorre dalla sorgente alla foce in costante pianura. Di poche parole, dai movimenti misurati e posati, le Vesti blu difficilmente perdono la calma, lasciandosi guidare dalle emozioni, e prediligono porsi dinanzi alle problematiche affidandosi prima all’intelligenza e all’esperienza, poi alla pura azione.
Quando lanciano un incantesimo, preferiscono enfatizzare i soli gesti, pronunciando le parole come una cantilena a bassa voce, lasciando che la loro magia si innalzi placidamente investendo l’obiettivo prefissato. Amano la tranquillità, e spesso si possono trovare in una piccola stanza ben illuminata, magari isolata (anche se il loro atteggiamento paziente ed adattabile permette loro di ritagliarsi un proprio spazio di tranquillità un po’ ovunque), a dedicarsi allo studio degli antichi testi e pergamene, cosa che amano particolarmente. Spesso sono vicini a biblioteche e ad altri centri di sapere, attingendo da essi o magari anche contribuendo alla loro gestione. Le vicende e le conoscenze dei predecessori sono per il Mago dell’Acqua fonte per lui di infinita esperienza.
Alcuni dei maggiori esponenti di questa Via sono stati Teleri e Quenya, aiutati dal naturale distacco e dal controllo di sè insito nel proprio retaggio.
L’adepto della via della Terra è generalmente uno studioso e profondo conoscitore della materia fisica e delle cose che da essa prendono forma. Ogni problema può essere risolto osservando e studiando l’essenza degli oggetti, cercando di capirne la composizione, relazionandovi la storia e usando opportuni incantamenti. Per questo motivo è spesso molto legato allo studio della Natura, considerata come fonte e armonizzatrice di infiniti stimoli.
Non è raro che egli sia un abile combattente e riesca a combinare con sapienza l’arte della magia e della guerra. Il mago della terra tende ad essere statico nelle proprie idee ed assente dai discorsi altrui, come se nulla che non lo riguardi direttamente possa importargli, ed è spesso semplice e diretto nei modi. E’ convinto nei propri ideali e difficilmente si riesce a smuoverlo dalle sue posizioni, ed è tra i maghi forse quello meno propenso all’innovazione. Gli Istar più portati per questa Via sono spesso i sindar, per l’attenzione per la natura e per la concezione conservatrice e chiusa che pervade la loro cultura.
Il fuoco arde imperituro nello spirito di chi segue la via del Fuoco. Le componenti centrali nei loro incanti sono il pensiero forte e la volontà decisa, trasmessi da parole pronunciate con voce tonante e gesti furiosi, che sembrano non riuscire a contenere però la potenza del loro spirito. Non preferiscono alcun luogo in particolare per vivere, e a volte non ne hanno bisogno: il fuoco che li guida è tutto quello di cui necessitano, e ciò li porta ad unirsi ad ogni causa che possa liberare quella potenza interiore che alberga nel loro spirito. Una volta che decidono di seguire una di queste cause, daranno tutto per seguirle ed appoggiarle, non lesinando alcuno sforzo; la loro generosità, il loro orgoglio e la sua combattività sono infatti caratteristiche molto visibili e spesso presenti.
Il mago del Fuoco, a causa del suo temperamento sarà probabilmente il più portato allo scontro, e il più determinato; cercherà sempre situazioni in cui provarsi, e in cui liberare il proprio potere, che siano sfide, competizioni o situazioni estreme e pericolose. Questa via è seguita da elfi di tutte le estrazioni, anche se trova maggior seguito nelle frange della collettività più portate allo scontro e all’affermazione di sè, spesso di retaggio nobile.
All’inizio della Terza Radura, solitamente, esperti sacerdoti di Morrigan o istar anziani esaminano i giovani elfi, verificando in loro la presenza o meno di predisposizione. In alcuni casi, tale predisposizione è così spiccata e potente da manifestarsi autonomamente nel giovane elfo: non sono rarissimi i casi in cui il potere “trabocchi”, dando origine a piccoli incidenti (piccolo incendi, manipolazioni involontarie di oggetti o piante); in questo caso gli insegnamenti vengono anticipati, per evitare che tale potere possa essere fonte di pericolo per la comunità e per instradare prontamente il giovane mago.
Gli elfi ritenuti dalla comunità idonei, vengono affidati ad un Maestro, preferibilmente scelto a seconda dell’inclinazione e quindi di comunanza di Via con l’allievo; qualora non sia possibile (ma non è comunque strettamente necessario), si utilizzano altri criteri, spesso improntati al buon senso e rapportati alla situazione sociale e culturale del giovane.
E’ importante però specificare che non è affatto comune che un giovane istar manifesti chiaramente le caratteristiche che permettono di accomunarlo ad una Via, e buona parte degli adepti impiegano alcuni anni per la comprensione di ciò, tramite profonde meditazioni e prove impegnative.
Non esistono formalismi che identifichino un Maestro, in nessun regno elfico: un mago è considerato tale semplicemente quando la famiglia dell’apprendista, o il giovane mago stesso, chiedono all’anziano di essere guida e insegnante, riconoscendone i meriti e le conoscenze. A volte si cercano istar che siano già affermati nella propria società (ad esempio per i Quenya ciò è molto importante), ma non sempre è così, ed altri elfi, come i Sindar o i Teleri, tendono a prediligere il puro merito.
A proposito delle diversità nei vari ceppi elfici, si possono segnalare e considerare altri aspetti, inerenti alle filosofie e al modo di rapportarsi con la magia.
Ad esempio, tra alcuni Sindar, la cui cultura è fortemente animista, vi è la credenza che la Magia non sia altro che uno spirito senziente e figlio di Morrigan, che albelga negli elfi dotati di potere e che si manifesta nei più svariati modi, e quindi, in un certo modo senzientee degno di venerazione.
Invece, alla Perla dei Mari, molti Teleri hanno sviluppato col tempo gli antichi insegnamenti di origine quenya, fortemente influenzati dalle contaminazioni delle altre culture e guidati dalla loro apertura mentale: il risultato è che il pensiero più innovatore, vivo e sperimentale risiede spesso negli studi e nelle biblioteche di Rotiniel.
Infine, per quanto riguarda gli “Alti”, “coloro che hanno la più alta comprensione dell’Arte Arcana”, si può dire che Ondolinde mantiene inalterato nel tempo il suo status di “capitale” della Magia elfica, seguendo forse il maniera più fedele e “conservatrice” gli insegnamenti primi di Nuireletion; l’Arte è spesso vista come mezzo di doverosa manipolazione della Natura e del creato, testimonianza di grandezza del popolo quenya in special modo, che ne custodisce probabilmente i più reconditi segreti, come la Tessitoria Arcana.
Sempre con riferimento società elfica, è importante e doveroso chiarire il rapporto con la Magia Nera, Moringul per i Quenya e Teleri, Morgul per i Sindar.
Tali pratiche sono state nella storia del popolo elfico sempre seguite, quasi senza differenze, tra le varie casate Sindar, Quenya e Drow. Magari questa cosa potrebbe sorprendere un Edain che leggesse questo testo, ma non deve: nella cultura elfica raramente esistono distinzioni nette tra bene e male, nondimeno quando si ha a che fare con la Magia; dopotutto nel potere della magia è racchiuso anche parte del potere di Luugh.
Quello che importa davvero per un istar è l’uso che si fa degli incanti, e il modo in cui ci rapporta.
Frammenti della storia passata, prima dei tremendi Falò, ci riportano testimonianze di terribili maledizioni scagliate dai maghi Sindar contro profanatori dei loro luoghi sacri, di studi doviziosi di creature demoniache svolti negli antri della casata Quenya, o di perduti riti necromantici degli incantatori Drow. Proprio a tal proposito, va specificato che è l’ultima tipologia, la necromanzia, ad essere stata poi con il tempo rigettata e condannata da ogni congrega e mago elfico, da coloro i quali non vogliono camminare fuori dalla luce di Beltaine e dagli insegnamenti dei Valar tutti.
Per quanto riguarda gli altri tipi di incantesimi di questa sfera, in genere non sussistono vincoli di tipo morale o religioso, ma è tutto lasciato alla responsabilità, alla sapienza e la fermezza d’animo del mago; è importante comprendere che deriva grande potere dall’uso e dalla manipolazione di certe forze, che possono intaccare le essenze vitali (gli altri tipi di magia però non prevedono un uso meno responsabile, si parla sempre di grandi influenze sull’ambiente circostante), e che occorre prestare molta attenzione nel richiamare creature barbare, spinte da istinti crudeli, senzienti e intelligenti, e che soprattutto obbediscono loro malgrado.
Alcune creature demoniache sono dotate, infatti, di una forza di volontà fuori dal comune, nonché di notevoli abilità sobillatorie e tentatrici, e gli elfi ricorrono al loro aiuto con parsimonia, perchè sanno che ogni volta dovranno mettere alla prova duramente le proprie capacità, e poiché si teme che il demone possa ricordare il trattamento subito, quando viene dominato, e vendicarsi coi propri simili alla prima occasione. C’è anche un altro modo in cui si può relazionarsi col demone, ovvero assecondando le sue richieste tentatrici, e contrattando così il “prezzo” del suo servizio: ma questo è un modo ancora più pericoloso, poiché si rischia di perdersi in un vortice di dissolutezza, giungendo al fine a ridursi schiavi della creatura.
Un discorso differente va invece fatto per chiarire ulteriori differenze tra quanto visto finora, e la Magia Proibita (Langol in quenya, Algul in sindarin). Questo tipo di incantamenti è stato sviluppato, a prezzo di corruzione di animo e corpo, nei reconditi abissi delle città Drow, e non si hanno testimonianze finora di elfi chiari in grado di maneggiarne tale potere; non di meno, disponiamo di pochissime informazioni in merito, e quel poco che so lo devo solamente all’immensa saggezza e conoscenza del mio Maestro.
Frammenti di leggenda raccolti con dovizia nei secoli, riportano come questo potere sia nato nei tempi della Fondazione delle prime comunità Drow, quindi dopo la separazione delle casate e l’esilio degli Scuri: si narra che sia stato il condottiero e guida degli elfi Siregh, a ricevere questo potere direttamente come intercessione divina, e che se ne sia servito per imporre la propria autorità al suo popolo mostrandosi come prescelto dai loro dei. Questo potere, e gli insegnamenti atti ad utilizzarlo, vennero segretamente e quasi ossessivamente tramandati all’interno della casata del condottiero, e successivamente diffusi, ma con attenzione, presso le famiglie più potenti tramite i sacerdoti più autorevoli dei culti drowish.
Quello che molti hanno potuto osservare avendo a che fare con gli stregoni drow (evocazioni di ragni, potenti magie di veleno e corruzione) è solo una parte del grande potere, che comprende anche potenti divinazioni, riti di evocazione di aberrazioni e di corruzione di forme di vita; nel complesso comunque si tratta di un potere molto legato alla religiosità, tanto che diverse forme di questi insegnamenti sono usati anche dai sacerdoti, oltre che dagli stregoni Scuri.
E’ facile supporre che persino all’interno della società drow siano pochi a disporre di ampie conoscenze in merito, e che esse vengano custodite con cura e “centellinate” alle armate o agli studiosi che se ne debbano servire.
Occorre quindi molta attenzione nell’accomunare questo potere con la Moringul: è un errore che spesso viene commesso da elfi inesperti, ma che dovrebbe essere evitato da studiosi e istar responsabili e consapevoli del Dono di Morrigan. Sebbene forse vi possa essere una piccola somiglianza negli effetti degli incanti, vi è una enorme differenza nell’origine dei poteri: mentre infatti il dono viene veicolato dal Piano della Men, e attinto direttamente dal potere primo racchiuso nel Globo della Conoscenza, la Magia Proibita attinge (almeno secondo le ipotesi del mio Maestro)
da fonti diverse, quali l’essenza corporea dell’usufruitore, e il potere corrotto delle divinità inferiori che gli scuri venerano.
Qui si conclude la mia umile opera. Possa il Sempre Saggio essere benevolo con questo scritto, e possa esso diffondersi tra tutti gli studiosi e istar degni del mondo conosciuto.
Winyandor, 23 Dodecabrullo 271
Winwar Elessir, adepto della Via dell’Acqua sotto la guida del saggio Hisie en’Yevia
Quando, al principio dei Tempi, Luugh creò il mondo come lo conosciamo, infuse in ogni cosa la Scintilla del Fuoco Divino: negli astri, nelle acque, nelle rocce, negli animali e negli elfi stessi. Questa fiamma, chiamata Naer’Thil, vive in ciascun elfo come Scintilla interiore, retaggio e marchio del Perfetto.
Ma Suldanas e Beltaine, imperfetti e divisi, insidiarono l’opera del Perfetto. Dal loro inganno nacquero Morrigan ed Earlann, anch’essi segnati da incompletezza. Essi esiliarono Luugh e presero il dominio del Creato costruendo troni su fondamenta fragili. Così ogni loro dono è imperfetto e ogni loro promessa menzognera, poiché nessuno di loro possiede la pienezza del Tutto.
Tra i frutti dell’inganno si annovera il Globo della Conoscenza. Non è fonte, ma filtro; Morrigan non generò la magia, bensì la rinchiuse. Ella raccolse l’energia profusa da Luugh in ogni cosa e la vincolò in un ordine artificiale, così che gli Elfi potessero attingervi senza rischi, ma privati della vera libertà.
Il Piano della Men, venerato dagli ortodossi come origine, è solo un riflesso addomesticato del Fuoco Divino, una prigione di luce, non la Fiamma autentica. L’ortodossia proclama che il Mana sia forza interiore concessa da Morrigan, veicolo del potere custodito nel Globo della Conoscenza e manifestazione del Piano della Men. Secondo i loro maestri, esso è la volontà e la capacità dell’Istar di incanalare, per brevi momenti, le energie raccolte dalla dea, servendosi di gesti, parole e reagenti. Così attraverso il Mana, gli incantatori possono piegare il creato e dare forma agli incantesimi.
Tuttavia, il Mana è un’imposizione imperfetta, un filtro tessuto da Morrigan per celare agli Elfi la loro eredità più pura. Prima che Morrigan levasse il Globo a baluardo del proprio dominio, Luugh aveva inciso negli elfi la Naer’Thil. Essa, più antica e perfetta del Mana, non necessita del Globo per manifestarsi ed è la traccia del Perfetto impressa nello spirito degli Antichi e tramandata in ogni discendenza elfica.
La Naer’thil è il dono autentico di Luugh, essa libera potenza senza bisogno di mediazioni, è ciò che rese gli Antichi prossimi agli stessi dèi ed è ciò che ancora pulsa negli Elfi, sebbene addormentata e soffocata dai vincoli del Globo.
I chierici di Morrigan possono accrescere il Mana, ma non possono avvicinarsi alla purezza della Scintilla. Il Piano della Men non è la sorgente della Magia, ma il recinto eretto da Morrigan intorno a un frammento di Luugh. Utile ai deboli, ma limitato ed estraneo al Perfetto. Il Mana si logora e si disperde; è lo strumento di chi accetta i vincoli dell’imperfezione.
La Scintilla di Luugh, invece, è parte dell’essere stesso, non si moltiplica né diminuisce, non si trasmette, non si imbriglia e non si può piegare. È la fiamma che arde anche senza Globo, più antica di ogni filtro, più pura di ogni artificio.
Gli ortodossi gridano che Morrigan abbia donato la Magia, ma senza la Scintilla, nessun elfo avrebbe mai potuto incantare.
L’uso del Globo non è fonte, bensì vincolo: Morrigan non creò nulla; rubò ciò che era di Luugh. Il Mana è solo il riflesso mutilato della vera fiamma che ancora vive negli elfi. La magia va praticata come retaggio del Perfetto, in attesa del giorno in cui Luugh spezzerà i filtri e gli inganni, restituendo agli elfi il loro vero potere.
Dopo la Guerra dei Cento Anni, quando la casata dei Mornedhil si esiliò nelle profondità della terra, Luugh donò loro la conoscenza segreta del Langol attraverso Siregh. Non una magia di formule né di simboli, ma un contatto diretto con la Scintilla, l’essenza primordiale della Naer’Thil. Non dal Globo né dal Mana essa traeva vigore, bensì dal sangue, che diveniva veicolo e tramite del potere.
L’errore dei Mornedhil fu piegare questa via alla violenza e alla sopraffazione. Trasformarono il sangue in carburante di distruzione, dimenticando che odio, sofferenza e dolore non sono fini, ma vie verso la trasformazione e la purezza. Nelle loro mani la Scintilla divenne fiamma divoratrice. La Magia Proibita non è corrotta: lo sono le mani che la impugnano. La Scintilla non perdona e richiede misura, poiché anche la potenza perfetta, se priva di equilibrio, diviene rogo che divora colui che la possiede.
I seguaci di Luugh di superficie non praticano più il Langol. Dopo millenni di educazione sotto il giogo delle dottrine elfiche, hanno appreso come attingere al Globo attraverso il Mana, come ogni altra stirpe. Eppure, il ricordo della Scintilla permane in loro come aspirazione. Essi credono che, con disciplina ferrea e dedizione assoluta, un giorno potranno tornare a risvegliare quel contatto perduto, come già alcuni Istar del popolo originario di Barad Dhaerim seppero fare.
Ma tale via non può essere insegnata: nessun maestro, nessuna formula, nessun rito possono rivelarla. La Scintilla non si trasmette, ma si scopre e si alimenta. È dentro l’animo di chi cerca, e solo chi osa scrutare se stesso fino alle profondità più laceranti del proprio sangue e del proprio spirito può sperare di accenderla.
Conosciuta come Moringul in lingua Quenya e Telerin o Morgul in Sindarin, la Magia delle Ombre era diffusa in tutte le casate elfiche. La cultura elfica non applica una distinzione netta tra bene e male, ciò che conta è la guida della Scintilla e della saggezza interiore.
All'interno delle discipline dell'ombra esistono distinzioni cruciali che determinano la loro legittimità: la necromanzia distorce la Scintilla vitale ed è condannata quasi senza eccezioni.
Altre pratiche del Moringul, tuttavia, possono costituire strumenti di potere e crescita spirituale, se maneggiate con disciplina e consapevolezza. Queste includono manipolazioni dell'entropia che non violino i principi fondamentali della vita.
L'invocazione di entità senzienti o demoniache (Nerthim) rappresenta una categoria distinta dalle pratiche delle ombre. Queste entità possono essere dominate, ma potrebbero ridurre in schiavitù il praticante. La responsabilità degli Istari è fondamentale per non cadere nell'illusione del facile dominio.
La magia non è dono di Morrigan, ma eredità di Luugh. La Scintilla del Fuoco Divino è la vera fonte del potere, e solo riconoscendone l’origine è possibile praticarla con saggezza. Chi ignora la fiamma autentica rimane vincolato all’imperfezione.
Quanto già espresso consente di cogliere numerosi tratti distintivi della vita elfica, ma è opportuno soffermarsi su alcune abitudini e peculiarità che meritano un’attenzione specifica. Col tempo, la società elfica si è avvicinata in diversi aspetti a quella umana, un cambiamento attribuibile principalmente all’influenza dei Decadentisti, il cui operato ha progressivamente livellato il divario culturale che un tempo vedeva la civiltà elfica in netta supremazia.
Ciononostante, alcune eccellenze sono rimaste inalterate, come l’arte medica, che rimane quasi esclusivamente nelle mani della classe clericale. Si ritiene che, in assenza di tale avanzata conoscenza – magica o meno – la speranza di vita degli elfi non supererebbe i 500 o 600 anni. In realtà, l’evoluzione della loro razza è strettamente connessa a secoli di pratiche mediche che, agli occhi di altri popoli, rasentano il miracoloso. Questo lungo processo ha permesso agli elfi non solo di vivere più a lungo, ma anche di sviluppare caratteristiche fisiche uniche: una marcata resistenza agli sbalzi termici, un udito e una vista superiori alla media, e una bellezza naturale evidente anche ai più inesperti.
Tali doti si riflettono anche nel modo di vestire: gli elfi prediligono abiti leggeri, spesso molto aderenti, confezionati su misura per esaltare le forme. È frequente vederli indossare vesti sottili anche in pieno inverno. Nelle città, si spostano a piedi con passo misurato e composto, tanto da risultare estenuante agli occhi di un umano, ma perfettamente adatto al ritmo di un nano.
Nel relazionarsi con le altre razze, gli elfi adottano un atteggiamento generalmente tollerante e incline al dialogo. Evitano i conflitti, che ritengono sterili, preferendo il chiarimento al confronto armato. Gli umani, salvo rare eccezioni detti “amici degli elfi”, sono visti con sospetto: si crede che la loro coscienza individuale, troppo istintiva e priva di riflessione, li renda incapaci di comprendere e rispettare l’equilibrio naturale, che spesso violano con la loro brama di conquista e sfruttamento.
Ben diverso è il sentimento che gli elfi nutrono verso i nani. A causa di antiche narrazioni tramandate dagli stessi elfi, relative alla millenaria prigionia del popolo nanico, essi provano un profondo senso di colpa. Tali racconti, vicini alle tesi sostenute dai Decadentisti, hanno alimentato negli elfi un rispetto prudente verso i nani, i quali, tuttavia, si mostrano spesso diffidenti e ostili.
Ciò che distingue in modo inequivocabile la società elfica da ogni altra è il concetto di Collettività. Essa non implica la rinuncia alla coscienza individuale, bensì l’adesione a un sentire comune tanto profondo e radicato da rendere impensabile agire in modo dissonante. Alcune scelte, alcuni comportamenti, risultano talmente condivisi da tutta la popolazione da apparire come l’unica via possibile. Questo legame collettivo è tale da spingere un elfo, in casi estremi, a rinunciare alla propria vita se ciò dovesse servire al bene della Collettività. Fortunatamente, simili eventi sono rari: l’identificazione dell’elfo con la Collettività è tanto profonda da rendere impensabile una sua rottura senza conseguenze devastanti per la mente dell’individuo.
Anche la natura, secondo gli elfi, possiede una sua forma di collettività, il cui simbolo più alto è il Tulip: il tronco rappresenta la Collettività stessa, mentre i singoli rami sono i suoi figli. Questo principio di coesione porta enormi benefici in termini di solidarietà e prosperità sociale. Ma ha anche i suoi limiti: agli estremi del pensiero collettivo si trovano i Decadenti, come boccioli incerti che potrebbero non sopravvivere all’inverno, e gli Imperialisti, le radici profonde che tengono saldo l’albero. Se uno dei due estremi prende il sopravvento, il Tulip intero rischia di appassire.
La Collettività rappresenta il centro attorno a cui ruota ogni decisione. I concilî, piccoli cerchi composti da individui illustri, ne costituiscono il fulcro. Ogni elfo sa con chiarezza quale sia il proprio posto nella gerarchia sociale, quanto sia immerso nel sentire comune, e in quale misura sia partecipe della Collettività.
Nella visione elfica, il mezz’elfo è considerato un’anomalia, un frutto nato dall’incontro di due mondi troppo distanti per fondersi in equilibrio. Così come alcune mode o consuetudini umane possono essere occasionalmente tollerate come effimere contaminazioni, anche il legame – talvolta affettivo, più spesso passionale – tra un elfo e un umano può essere temporaneamente accettato. Tuttavia, il risultato di tale unione, il mezz’elfo, è percepito come un errore del destino, un germoglio imperfetto sul ramo dell’Albero.
Poiché un mezz’elfo nasce solo da un’unione tra un elfo e un umano, è consuetudine che il parto avvenga nel continente elfico, o quanto meno si cerchi di garantirlo. Qui, in un ambiente controllato, il neonato è affidato a nutrici esperte e posto sotto la supervisione di un sacerdote o una sacerdotessa di Beltaine. Questa cura iniziale rappresenta l’unico gesto d’accoglienza che la Collettività Elfica è disposta a offrire. Dopo lo svezzamento, infatti, il destino del mezz’elfo è segnato: egli non potrà mai essere educato come un elfo, né potrà far parte della Collettività. La sua coscienza, la sua natura ibrida, lo escludono da quel sentire comune che costituisce il fondamento stesso della società elfica.
Il genitore elfico, consapevole fin dall’inizio di questa condizione, non potrà crescerlo. Non per mancanza d’amore, ma perché l’amore stesso, nella cultura elfica, si sublima nel rispetto dell’armonia collettiva. È per questo che quasi tutti i mezz’elfi vengono inviati nel continente umano una volta svezzati, affidati al genitore mortale o, quando ciò non è possibile, a comunità umane che possano prendersene cura.
Una tale scelta non nasce da un rifiuto crudele, ma da una profonda consapevolezza: la storia insegna che i mezz’elfi non sopravvivono a lungo nella società elfica. La loro vita, nel migliore dei casi, si spegne lentamente, schiacciata dal ritmo lento e contemplativo di una collettività che non riescono a comprendere e da cui non si sentono accolti. Nel peggiore, la loro esistenza si consuma nell’isolamento, nella dissonanza, nella progressiva perdita di sé.
È per questo che molti mezz’elfi, giunti all’età della consapevolezza, lasciano volontariamente i territori elfici per cercare un proprio cammino nel continente umano, oppure a Rotiniel, città portuale dove la presenza elfica si mescola con quella di altre razze in modo più fluido e tollerante. Lì, lontani dal rigore della Collettività, possono trovare uno spazio più consono alla loro natura duplice, sospesa tra luce e ombra, tra razze e destini che non si appartengono mai del tutto.
Sebbene la Collettività Elfica unisca tra loro tutti gli elfi in un sentire profondo e condiviso, essa non annulla l’individualità dei suoi membri. Al contrario, ne accoglie e ne incanala le sfumature, come un albero che, pur avendo un unico tronco, lascia spuntare ramoscelli diversi lungo i suoi rami. Nel corso dei millenni, questo flusso naturale ha dato origine a quattro grandi stirpi elfiche, ciascuna espressione di un impulso collettivo peculiare, consolidatesi anche attorno a nuclei demografici ben definiti. Ognuna di esse ha fondato una propria città e un proprio modo d’essere, contribuendo a formare la fisionomia frammentata ma armonica del popolo elfico.
All’estremo più oscuro dell’Albero della Collettività si trovano i Drow, spesso chiamati le Radici. Essi condividono il sentire comune, ma ne abitano le zone d’ombra, tanto ai margini da risultare incapaci di orientarne il cammino. Tuttavia, non v’è dubbio che essi ne facciano ancora parte. I Drow rappresentano l’espressione estrema dell’ideale Imperialista: sono fermamente convinti che la razza elfica sia destinata a dominare Ardania tutta, e disprezzano apertamente le altre stirpi, che ritengono inferiori. La loro devozione si rivolge alle divinità oscure, ma oltre questo poco si conosce del loro culto, poiché vivono prevalentemente nel sottosuolo, in città celate e inaccessibili. La più grande tra queste è Luughnasad, capitale del loro impero sotterraneo.
I Drow non solo combattono ogni ostacolo alla loro ascesa, ma non esitano a rivolgere le armi contro gli altri elfi stessi, giudicati colpevoli di non comprendere il “vero destino” della razza. Per loro, la Collettività è un sentiero da forzare, una via da imporre con la forza, e il loro sogno di dominio si nutre del sangue di chi si oppone, fratello o straniero che sia.
Dall’altra parte dell’Albero, immersi nella luce diffusa della natura, dimorano i Sindar, coloro che hanno ascoltato il richiamo del Doriath. Essi sono il volto puro del Decadentismo elfico: pacifici, appartati, eppure profondamente legati alla Collettività attraverso il vincolo più antico, quello con la natura stessa. Hanno visto nelle guerre passate e nella decadenza dell’era presente il segno dell’allontanamento dalla vera essenza elfica, e hanno scelto il silenzio come risposta. Non sono guerrieri, né politici, ma nessuno desidera ritrovarsi nel mirino di un cacciatore Sindar: quando colpiscono, lo fanno con precisione assoluta.
La loro antica città, Tiond, sorgeva nel cuore della foresta e si diceva fosse invisibile agli occhi degli estranei, protetta dalla volontà degli alberi e dalla guida dei suoi abitanti. Molti uomini sono svaniti nel tentativo di penetrarla. Quando Tiond è caduta, i Sindar si sono ritirati a Tindunan, nella Valle Celata di Valinor, dove proseguono la loro vita in comunione con la natura, lontani dal tumulto del mondo. Oggi Tiond è stata ricostruita, celata tra le foreste agli occhi degli stranieri.
Pragmatici, brillanti e abili nel trattare con le razze mortali, i Teleri rappresentano la stirpe elfica più incline all’adattamento e alla mediazione. Fedeli alla Collettività, ma non ostili alle influenze esterne, sono storicamente i più vicini agli umani, non per affinità spirituale, ma per calcolo e opportunità. Sono mercanti, diplomatici, strateghi, e non disdegnano la menzogna se serve ai propri fini.
I Teleri furono i primi a riemergere dal silenzio secolare degli elfi per riallacciare i rapporti con gli umani, e non senza secondi fini: ne derivarono immensi guadagni, che investirono per fondare la loro splendida città portuale, Rotiniel. Questa è l’unico approdo elfico accessibile ad altre razze, e rappresenta oggi un crocevia tra mondi diversi. Rotiniel accoglie in particolare quegli elfi che si sono fermati alla Seconda Radura o che trovano nella Collettività una scarsa soddisfazione materiale. Sono elfi capaci di vestire come umani, di parlare le loro lingue, e di muoversi tra loro con sorprendente familiarità, quando lo desiderano.
I Teleri sono associati alla corrente degli Illuminati, fautori di un progresso condiviso che cerca di coniugare collettività e apertura, anche se spesso ciò li pone in bilico tra integrità e convenienza.
Ultimi, ma non per importanza, vi sono i Quenya, il ceppo nobile degli elfi. Essi incarnano la versione più alta e solenne dell’ideale Imperialista, ma con una visione meno brutale e più raffinata rispetto ai Drow. Credono che gli elfi debbano tornare a guidare Ardania, ma non con la guerra, bensì con la luce del sapere, la superiorità della cultura e la saggezza della tradizione.
I Quenya conservano gelosamente le testimonianze del passato più remoto della loro stirpe, raccolte nella loro città splendente: Ondolinde, oggi parte del Regno di Valinor, insieme a Tindunan. Ondolinde è custode di meraviglie perdute: torri, architetture armoniche e strumenti dimenticati che ancora funzionano con precisione millenaria. Tra queste reliquie spicca il leggendario Rivela-stelle, un antico cannocchiale capace di scrutare le profondità celesti con una nitidezza che sfida la logica stessa. Se tanto hanno costruito con la scienza, c’è da domandarsi cosa avrebbero potuto ottenere unendo anche la magia.
I Quenya, a differenza dei Teleri, non cercano adattamento, ma restaurazione. Guardano al passato come a una vetta da riconquistare, e sognano un futuro in cui la Collettività Elfica possa tornare a splendere su tutto il continente.