Nel profondo Sud delle Terre Selvagge sorge Tortuga, un’isola tropicale circondata da scogli e misteri, dominata da fitte giungle e insenature nascoste. È un porto franco caotico e vibrante, patria dei Corsari Scarlatti e rifugio per pirati, mercenari, fuorilegge, marinai, esploratori e avventurieri in fuga dalle leggi dei regni civilizzati. Il villaggio principale si raccoglie attorno al porto e nella Piazza della Misericordia, sempre gremiti di velieri e uomini di mare, e ha come cuore pulsante la famigerata locanda del Cannocchiale Rotto, centro di ogni eccesso, intrigo o rissa.
Tortuga è un covo di reietti, ma anche una comunità vibrante e dinamica: libertà, avventura, illegalità e spirito di sopravvivenza sono i pilastri.
La giustizia è spiccia: patibolo in piazza, regolamenti flessibili, ma chi tradisce paga.
Non esistono vere leggi scritte: vige la consuetudine pirata e la legge del Governatore Edward Morgan.
Ogni nuovo personaggio può essere un corsaro, un mercenario, un marinaio, un esploratore o un fuggiasco: nessun passato è troppo oscuro per Tortuga.
Le relazioni tra personaggi sono spesso intense, conflittuali e ambigue: risse, alleanze, ammutinamenti e intrighi sono all’ordine del giorno.
L’ambiente è ostile, ma anche pieno di mistero: esplorare la giungla, trattare con gli indigeni o cercare tesori nascosti può diventare parte del gioco quotidiano.
L'isola di Tortuga è un "contenitore di gilde". Le ciurme che la abitano sono gilde indipendenti tra loro.
Attualmente, oltre alla storica gilda dei Corsari Scarlatti, Tortuga è abitata dall'Ordine della Vendetta e dalla Legione Vareghi.
Tutto cominciò a nord, tra i ghiacci di Helcaraxe, dove i sogni si gelano sulla pelle prima ancora che nelle ossa. Ma Henry Morgan, vargos di flotta, era fatto d’altro materiale: un uomo che guardava oltre l’orizzonte. Sognava mari caldi, sabbia sotto i piedi e una ciurma libera da ogni padrone.
Chiese al Concilio dei Ghiacci il permesso di guidare una spedizione con i suoi uomini e colonizzare una grande isola nel profondo sud. Il patto fu chiaro: Morgan avrebbe scelto il suo equipaggio e mantenuto fedeltà al manto di Helcaraxe. In cambio, il Consiglio lo armò con un galeone nuovo, la Perla dei Ghiacci, e gli concesse piena autonomia operativa.
Così nacquero i Corsari Scarlatti, fratelli legati non da sangue nobile, ma da cicatrici, bottini e tempeste. Per un anno solcarono i mari in cerca della loro isola, fino a che, nell'A.I. 268, approdarono su un lembo di terra che pareva la corazza di una tartaruga adagiata sull’oceano: Tortuga.
L’isola era splendida: tropicale, lussureggiante, viva. Ad abitarla vi era una popolazione indigena fiera e radicata, ma tutt’altro che ostile. Non ci furono scontri né prevaricazioni: tra i Corsari e gli abitanti locali nacque un’intesa, uno spirito di collaborazione che li portò a condividere l’isola. Tortuga divenne così rifugio, porto e patria.
Ma quella nuova casa non rimase a lungo un segreto. Le acque attorno attiravano più navi di quante ne potesse contare una vedetta sobria. La Marina Imperiale di Hammerheim la bramava, volendone fare un avamposto militare. Le tensioni crebbero fino a diventare schermaglie: i Corsari, però, non si fecero trovare impreparati.
Con l’aiuto di pirati, bucanieri e filibustieri da ogni parte del mondo, respinsero gli imperiali. La vittoria consacrò Tortuga come terra libera, e i Corsari Scarlatti come suoi padroni indiscussi.
Nel 269, appena un anno dopo lo sbarco sull’isola, il cuore pulsante della ciurma si spense. Henry Morgan morì, lasciando un vuoto grande come il mare. Il giorno del suo funerale, l’intera isola si fermò. I Corsari non piangevano spesso, ma quel giorno l’aria pesava. I marinai controllavano le armi con le mani tremanti, non per paura, ma per rispetto.
Giunsero delegazioni da ogni angolo d’Ardania, persino da Helcaraxe. Il primo ufficiale parlò con voce spezzata, e lo Jarl del Nord ricordò il vecchio Capitano come un uomo allegro, audace, sempre pronto a brindare o a combattere. Undici palle di cannone squarciarono il cielo. Poi, come in ogni funerale degno di un pirata, si brindò, si litigarono le bottiglie e si ruppero i tavoli.
Con o senza Morgan, la ciurma restava padrona dei mari.
Negli anni a seguire, nuovi alleati giunsero sull’isola. I Ramjalar, spiriti liberi come il vento, trovarono in Tortuga un rifugio e nei Corsari fratelli di ventura.
Nel 277, vi approdò anche la tribù dei Qwaylar, costretta a fuggire dalla loro terra sacra di Waka Nui. Furono accolti come ospiti e fondarono il villaggio di Timata Ora, tra le foreste dell’entroterra, convivendo pacificamente con i Corsari e con gli indigeni dell’isola.
Ma come ogni storia di libertà, anche questa mutò. Nel 282, un uomo dal volto noto e dalla lingua affilata prese il potere: Edward Morgan, che affermava di essere figlio del leggendario Henry. Verità? Menzogna? Poco importava. Chiunque sa che, su Tortuga, non conta chi sei, ma cosa riesci a ottenere con le armi, la voce o la paura.
Con l’appoggio dei Corsari, Edward si proclamò Governatore, inaugurando una nuova era.
Sin da subito si instaurò un rapporto di fiducia tra il Governatore e i Corsari, ai quali egli affidò la responsabilità dell’isola in sua assenza e il compito di assisterlo nella sua amministrazione, convinto che avrebbero agito secondo la sua volontà. E così fu per molti lunghi anni.
Nel 286, la tribù Qwaylar lasciò l’isola per fare ritorno alla loro terra, Waka Nui, lasciando Timata Ora come piccolo insediamento, memoria viva di una convivenza durata quasi un decennio.
Oggi Tortuga è leggenda. Nessuna legge scritta, nessuna corona a decidere. Solo un Governatore, una moltitudine di ciurme e una sola regola: chi sa sopravvivere, comanda. Chi non è tagliato per questo mondo, scappa o soccombe.Tra le palme e i fuochi notturni, il vento porta ancora il nome di Morgan, e le onde raccontano le storie dei suoi figli, tutti quelli che, come lui, hanno fatto del mare la loro unica patria.
"Su Tortuga non v’è legge, se non quella che il Governatore fa valere. E chi non la teme, farà bene a rispettarla comunque."
Le “leggi” di Tortuga non sono incise su pietra né lette ad alta voce. Si imparano con il tempo, ascoltando le storie nei bordelli, nei porti e tra le caverne. Chi le viola scopre presto che su Tortuga il perdono è un lusso, e la legge è solo un’altra parola per “potere”.
Tortuga non ha un consiglio, né un codice scritto. L’unica voce che conta è quella del Governatore, che giudica, punisce e decide in base alla propria volontà. Il Governatore può delegare autorità, ma non deve rendere conto a nessuno, se non alle armi di chi osa sfidarlo. Il suo potere è assoluto, fintanto che riesce a mantenerlo.
Le ciurme, gli ordini e i gruppi presenti sull’isola (come i Corsari Scarlatti, la Legione Vareghi, l’Ordine della Vendetta) sono liberi di stabilire le proprie regole interne, purché non entrino in conflitto aperto con l’autorità del Governatore né minaccino l’equilibrio dell’isola.
Tortuga è rifugio prima che patria. Qualunque nave approdi al porto sotto bandiera di tregua gode di immunità, salvo ordini contrari del Governatore. Risse e regolamenti di conti si tollerano, ma gli attacchi alle navi in rada o ai magazzini del porto sono puniti con la morte, o peggio.
Ogni ciurma che commercia, razzia o traffica con successo è tenuta a versare un tributo al Governatore: una parte del bottino, delle merci o del guadagno. Il mancato versamento non è tollerato. Chi prova a fare il furbo, spesso scompare senza lasciare scia.
Su Tortuga, le parole valgono poco, ma un giuramento fatto davanti al Governatore, ai suoi uomini o a testimoni riconosciuti, è vincolante. Chi lo rompe viene marchiato come traditore, e in genere non vive abbastanza da farlo una seconda volta.
In assenza di ordini diretti, la forza fa giurisprudenza. Chi non riesce a difendere il proprio bottino, la propria nave o la propria pelle non ha diritto a lamentele. Questo principio regola buona parte dei rapporti sull’isola.
Assassinio premeditato di un alleato del Governatore, spionaggio a favore dei regni nemici, avvelenamento di pozzi o cisterne, o attentati all’autorità del porto sono reati che superano la soglia del tollerabile. In quei casi, la giustizia è rapida e brutale.
Le liti tra ciurme, capitani o gruppi vengono solitamente risolte con uno di tre metodi: un pagamento, un duello regolamentare o una mediazione presso il Governatore. Falliti tutti e tre, scoppia la guerra… finché qualcuno non impone di nuovo la pace.
A Tortuga, l’onore è una merce rara, ma la lealtà verso l’isola e verso chi la guida viene ricompensata. Tradire Tortuga o vendere i suoi segreti ai Regni esterni è considerato il crimine supremo. I traditori vengono inseguiti ovunque vadano, e non trovano rifugio nemmeno tra i morti.
A Tortuga non si arriva per caso.
L’isola attira, come la luce di una lanterna nel buio, tutti coloro che il mondo civile ha cercato di dimenticare: banditi in fuga, ex soldati rinnegati, mercanti disonesti, stregoni decaduti, reietti, traditori, bestemmiatori e ogni sorta di feccia cacciata dai Regni.
È un rifugio per chi ha pochi scrupoli e molte cicatrici, per chi sa che l’onore è un lusso e che la sopravvivenza vale più della gloria. In questo ambiente spietato e vivace, chi non condivide certi "valori" non resiste a lungo: i più ingenui fuggono alla prima notte, gli altri diventano bersaglio del bullismo più sfacciato, rito di passaggio per ogni giovane leva che metta piede sull’isola senza aver ancora indossato la propria maschera da predone.
L’atmosfera è densa di fumo, sudore, menzogne e risate sguaiate. Il grog, distillato tanto forte da sciogliere la pece, scorre come acqua tra le mani degli avventori. La ricetta è segreta, conosciuta solo dai pochi maestri distillatori tortughesi, ed è considerata una sorta di “sangue dell’isola”: amaro, bruciante, eppure irresistibile.
Il rispetto, qui, si guadagna con la lingua prima ancora che con la spada. Ogni anno, nel cuore della stagione dei monsoni, si tiene la Gara di Insulti, un duello verbale tra i migliori bestemmiatori, burloni e provocatori dell’isola. Non è raro che qualche scontro finisca a coltellate o, più spesso, in un abbraccio ubriaco. Vince chi riesce a umiliare l’avversario senza mai perdere il sorriso.
I tortughesi hanno una morale propria, tutta piegata al loro modo di vivere: la lealtà vale solo finché conviene, ma la vendetta è una questione d’onore. I più furbi non fanno mai la stessa domanda due volte, i più scaltri imparano in fretta quando è meglio tenere la bocca chiusa.
L’autorità è vista con sospetto, la legge è una parola pronunciata sottovoce, e la fede – se c’è – è rivolta alle forze più selvagge e incontrollabili del mondo, come il mare stesso. Ma c’è una cosa che unisce tutti gli abitanti: nessuno vuole tornare indietro. Tortuga è crudele, è libera, è viva. E chi riesce a starci a galla, non la lascerebbe per nulla al mondo.
Su Tortuga non troverai templi dorati, né sacerdoti in tunica a dettare sermoni dal pulpito. Le preghiere qui si sussurrano tra le onde, si mescolano al canto dei gabbiani e al rumore dei boccaporti che cigolano nella brezza salmastra. È una fede ruvida, fatta di abitudini, di superstizioni tramandate sottovoce, di un rispetto antico che nasce non dalla devozione, ma dalla paura di scatenare l’ira del mare.
Quasi tutti gli abitanti dell’isola — corsari, pirati, mercanti d'acqua salata e contrabbandieri — portano nel cuore, e più spesso nelle viscere, il nome di Danu, la Dea del Mare. Non è raro sentirli bestemmiare ogni altra divinità conosciuta e subito dopo bisbigliare una scusa frettolosa verso la Signora delle Onde, toccandosi il polso o il ferro come gesto scaramantico.
Danu non ha bisogno di altari, le sue “messe” si celebrano quando un equipaggio prende il largo, con una razione di grog gettata in mare in segno d’offerta, o quando il mare si agita e gli uomini si fanno piccoli, sforzandosi di ricordare se, per caso, l’ultima volta hanno offeso la Dea con un insulto di troppo o un'offerta dimenticata.
Chi vive su Tortuga non è gente di preghiera, ma tutti temono la burrasca improvvisa, il vento che gira senza preavviso, la vela che si lacera nel bel mezzo della bonaccia. E tutti, chi più chi meno, sanno che il mare ha occhi e orecchie, e che offendendo la Dea si finisce prima o poi per pagare il conto. Di tanto in tanto, qualcuno sparisce tra i flutti — una barca capovolta, un urlo nella notte — e basta questo a rinsaldare la fede di chi resta.
Non esiste un culto organizzato, né un clero ufficiale. Ma ogni porto ha il suo vecchio marinaio che conosce i canti giusti da intonare al tramonto, ogni ciurma ha almeno un mozzo che sa quali parole mormorare prima di calare l’ancora. E tra le rocce che sorvegliano le scogliere dell’isola, qualcuno giura di aver visto antiche incisioni, offerte dimenticate e conchiglie disposte in cerchio: segni che anche gli indigeni onoravano Danu ben prima che arrivassero i Corsari.
A Tortuga si vive veloci, si muore per un colpo di stocco o per un sorso di grog sbagliato. Ma tra una risata sguaiata e una rissa in taverna, nessuno si scorda mai di Danu, e di quanto possa essere vendicativa se dimenticata.
Perché si può sfidare un uomo, una ciurma, perfino un regno.
Ma non si sfida mai il mare.